Chi segue da tempo le vicende legate all’ospedale di Martina Franca sa che in media una volta al mese c’è qualche novità che sconvolge i piani precedenti. Anni fa si sperava in un possibile nuovo megaospedale a Martina; qualcuno vociferava di aver già individuato dei terreni disponibili per la costruzione. Si asseriva che questo nuovo ospedale avrebbe potuto essere un polo a metà strada per Taranto e l’area adriatica.
Ma i conti erano sbagliati. I nuovi ospedali, di cui è stata finanziata una prima tranche per la loro costruzione, saranno ai lati opposti del nostro territorio, ovvero esattamente a Taranto e a Fasano: per cui, giocoforza, dovendo creare nuovi ospedali si dovranno smantellare (o meglio, in politichese: depotenziare strutturalmente) quelli vecchi.
È vero, la regione stava – e sta tuttora – procedendo a un piano di riorganizzazione dell’intera sanità. Qualcosa di mastodontico: provate a pensare a come garantire i servizi sanitari a una popolazione di quasi quattro milioni che invecchia (e quindi ha bisogno di maggiori cure), con strutture a volte inadeguate, il blocco del turnover del personale e una serie di politici che premono per qualche posto letto in più nella propria città. Un inferno, insomma.
Ma perché le fiamme di questo inferno devono lambire l’ospedale martinese? Perché ancora più in alto, a livello nazionale, si sono diramate una serie di regole: nel 2011 si annunciò la chiusura dei reparti di ostetricia con meno di 500 nati in un anno. A Martina, con mobilitazioni e proteste, si accesero i riflettori sul nostro ospedale, a rischio, per cui a gennaio si tirò un sospiro di sollievo con 603 nati, ben oltre il minimo. Ma il ministero non ha fatto altro che applicare, in ritardo e in modo poco ortodosso, una imposizione dell’organizzazione mondiale della Sanità che chiede di eliminare i punti nascita con meno di mille nati all’anno. E chi va a spiegare alle Nazioni Unite che se si applica questa regola alla lettera si salvano solo una manciata di ospedali?
Nonostante quello che dicono i vari partiti, di destra e sinistra, sulla politica sanitaria di Nichi Vendola, si possono vedere alcuni fatti: la volontà di chi siede a capo della regione è di ridurre all’osso le spese, eliminare i piccoli ospedali riducendoli a poco più che ambulatori e creare ex novo delle megastrutture di eccellenza, cinque o sei, per servire l’intera regione. La logica di questa politica può essere messa in discussione, piacere o non piacere, ma è questa, ed è condivisa sia dal Ministero della salute, sia dall’Organizzazione mondiale della Sanità. Ne è la prova la lista degli ospedali la cui chiusura è segnalata dal Ministero in quanto con meno di 120 posti letto; una lista fatta plausibilmente su dati vecchi, visto che nel prospetto 2010 l’ospedale martinese ha 138 posti letto e in quello 2012 ne ha 150, quindi oltre il minimo.
In base a questa logica i dati parlano da soli: l’ospedale di Martina Franca “chiuderà”, o meglio sarà ridotto a una struttura di scarsa importanza, perché la popolazione martinese dovrà fare riferimento, per i casi non ambulatoriali, a Taranto o a Monopoli.
La prospettiva è questa, e va detta con franchezza. Tuttavia bisogna considerare due cose importantissime: la prima è che i due ospedali che fagociteranno quello martinese non sono né costruiti né potranno entrare in funzione prima di almeno dieci anni; la seconda è che in questi dieci anni non abbiamo idea di cosa potrebbe accadere. I progetti dei due megaospedali potrebbero essere messi da parte, la politica sanitaria regionale o nazionale potrebbe cambiare, l’Organizzazione mondiale della sanità potrebbe scoprire che esistono posti come l’Italia in cui non ci sono megalopoli con ospedali che segnano migliaia di nascite all’anno, e così via. Ma è difficile: il futuro che si prospetta qui da noi non è positivo.
Certo, qualcuno potrebbe dirci che ci lamentiamo per il timore di problemi futuri, mentre la nuova sistemazione sanitaria potrebbe anche avere i suoi lati positivi: è vero anche questo, e nessuno nega che ad esempio a Taranto sia necessaria una struttura capace di curare tutti quei malati a causa di un inquinamento del quale anche noi subiamo le conseguenze. Magari in questa struttura si potrebbe fare anche ricerca, trovare perfino qualche soluzione medica. Quello che però è necessario mettere in discussione, e che forse avrebbe dovuto essere discusso anni fa, non è tanto la politica regionale o nazionale di riduzione delle spese, quanto il metodo.
Non è infatti accettabile il metodo adottato per stabilire una chiusura basato solo sui numeri di posti letto, così come non è accettabile che nel posizionamento di una struttura ospedaliera destinata ad accentrare una popolazione numerosa (esempio: il costruendo ospedale della “Valle d’Itria” a Monopoli) non si prendano in considerazione elementi basilari come i collegamenti stradali, assolutamente necessari per stabilire una rete di ambulanze o di collegamenti dagli ospedali ambulatoriali ai centri più grossi, i disservizi alle città di media popolazione (come Martina Franca o Conversano) e così via. Non è accettabile che, invece di pensare a ampliare e ingrandire alcune strutture si decida di costruire ospedali da zero con costi pubblici ovviamente maggiori per acquisto di terreni, edilizia, infrastrutture e così via.
Ancora meno accettabile è che su una questione grave come la sanità ci sia chi voglia fare speculazioni politiche, vere o presunte che siano, perché si svilisce e si annulla la possibilità di discutere seriamente e si trasforma il confronto in uno scontro stupido tra tifoserie dell’uno o dell’altro partito o movimento.
È disarmante vedere una piccola cronistoria della paura: in un anno e mezzo si susseguono notizie buone e cattive, di ampliamenti e di riduzioni, di accorpamenti e di espansioni che sembrano obbedire a nessuna logica, ma ai capricci della politica. È vero il contrario: leggendo bene si nota – e ci si ricorda – che le azioni politiche non sono immediate, non sono risposte pronte, ma processi che chiedono tempi lunghi per la loro realizzazione e che, una volta messi in moto, non si fermano anche se le maggioranze di partito cambiano. La ruota dentata dei meccanismi di riduzione ministeriale degli ospedali si è messa in moto, speriamo di non essere schiacciati in futuro.

Daniele Milazzo

Un pensiero su “L’ospedale chiuderà. Ma non ora”
  1. Bene Daniele Milazzo … sei un ottimo giornalista.
    Problema spiegato e centrato ottimamente senza speculazioni di sorta.
    Bravo

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