Oggi è la giornata nazionale delle lesioni midollari, sotto l’Alto patronato del presidente della Repubblica.

Di seguito un articolo che ci ha inviato un nostro lettore, il martinese Michele Carrieri che ne è affetto in seguito ad un incidente sul lavoro subìto al siderurgico tarantino. Non lo chiediamo mai, però stavolta chiediamo ai nostri lettori di leggerlo con attenzione particolare, e fa niente se, per una volta, è lungo:

L’integrazione sociale del disabile non è una novità, ma ritengo che il problema sia rivolto a tutta la popolazione anche a quella che in questo momento è sana.

Ricordiamo che i disabili non sono soltanto coloro che subiscono gli effetti di un danno congenito o precoce, bensì tutti coloro che, per effetto di malattia o di inabilità relativa, perdono il potere di essere pienamente contrattuali in una società che, da tempo, corre a perdifiato e dimentica chi resta indietro.

In Italia, ogni anno centinaia di migliaia di persone diventano disabili e molte migliaia superano quel limite di età (convenzionalmente fissato dopo gli 80 anni) che rappresenta, per ora, la soglia della complete autonomia.

Purtroppo, bisogna però riconoscere che fino ai nostri giorni il clima sociale non è stato

propizio.

Da una decina di anni a questa parte, invece, molti fattori – soprattutto l’aumentata

sensibilità sociale e una maggiore attenzione ai bisogni esistenziali – hanno consentito di

fare progressi che un tempo sarebbero stati impensabili.

Oggi un gran numero di disabili è inserito nella vita quotidiana, frequenta le scuole ed è

occupato in attività lavorative; quasi tutti i servizi per disabili perseguono questi obiettivi

e lo fanno con una quota di successo in genere abbastanza elevata.

Tutto ciò non deve tuttavia indurre ad un superficiale ottimismo: quando l’integrazione

sociale ha successo, a monte esiste sempre un lungo e paziente lavoro riabilitativo ed

educativo senza il quale il soggetto disabile non acquisirebbe i presupposti per vivere in

modo dignitoso nella società.

Pertanto, se vogliamo che l’integrazione sociale aumenti è necessario affinare gli strumenti

della riabilitazione e dell’educazione.

Fatte queste considerazioni preliminari, occorre affrontare in modo corretto i problemi che

derivano dall’incontro tra la persona disabile e la dimensione sociale, analizzando

oggettivamente, ma non pessimisticamente, le difficoltà che debbono essere superate.

Tuttavia, poiché i problemi non si superano solo con l’ottimismo della volontà, è

necessaria – proprio per ottenere un cambiamento – una certa dose dì realismo.

Un primo quesito che lecitamente mi pongo è il seguente: la società attuale, che tanto fa

per i disabili, rappresenta un contesto in cui il disabile può integrarsi facilmente?

Ad onta dell’atteggiamento positivo della società attuale, si deve ammettere che, quasi per

paradosso, essa è intrinsecamente la meno adatta a questa istanza.

Si tratta infatti, come  ormai si afferma comunemente, di una società complessa,

competitiva, difficile da viversi, spesso ostile ai soggetti dotati di scarsa contrattualità.

Se ci guardiamo attorno è facile accorgersi che il povero, il vecchio, la persona priva di

cultura hanno una vita difficile: si tratta di una constatazione oggettiva e molto

preoccupante.

 

Nella società del passato – pensiamo ad un’epoca recente: un secolo fa – la vita quotidiana era enormemente più semplice.

Il fatto che allora i disabili non fossero socialmente integrati era la conseguenza del pregiudizio; oggi, caduto per fortuna il pregiudizio, sono aumentati gli ostacoli e questa è la realtà alla quale dobbiamo far fronte.

Per procedere con ordine analizziamo, punto per punto, che cosa si deve intendere per integrazione sociale.

In primo luogo, la permanenza nell’ambiente familiare.

Anche questo primo obiettivo, il più semplice, spesso non è improblematico come

potrebbe sembrare.

Ci sono i soggetti gravi, disabili adulti, quelli che necessitano di cure che in

famiglia non possono essere attuate; inoltre ci sono le famiglie con genitori anziani o

malati; ci sono infine i casi che hanno un andamento peggiorativo.

In tutte queste condizioni in cui, non essendo possibile la vita in famiglia, è necessario

ricorrere alle istituzioni, la dimensione sociale si traduce in un adeguamento delle

istituzioni.

È evidente che la questione non ha più il peso di un tempo, ma ancora molto resta da fare

nel nostro Paese.

In secondo luogo, L’INSERIMENTO NEL LAVORO.

Non vi sono dubbi che ogni disabile pienamente inserito in un’attività lavorativa

rappresenta un grande successo per tutti noi, ma occorre ricordare che tale evento deve

essere correttamente interpretato.

Il lavoro è una dimensione fondamentale se è capace di produrre equilibrio e benessere; in

altre parole, del lavoro si deve avere una visione moderna e non convenzionale.

Il lavoro non deve essere mitizzato: il primo obiettivo è la condizione esistenziale e non è

detto che queste venga sempre ottimizzate attraverso il lavoro.

Non vorrei assolutamente essere frainteso a questo proposito: non muovo alcuna critica

agli sforzi dell’integrazione lavorativa, ma non penso che essa sia da considerarsi sempre e

comunque il punto di arrivo obbligato per ogni disabile.

In ogni modo, vite in famiglia ed integrazione lavorativa sono risultati che, per fortuna,

vengono spesso raggiunti perché coinvolgono le “macro agenzie” sociali sulle quali,

attraverso la legislazione e varie forme di aiuto, si può fare facilmente pressione.

Se ripensiamo a quanto è accaduto negli ultimi lustri, ci accorgiamo che il peso dei

provvedimenti normativi è stato essenziale in questo processo, naturalmente unito ad

un’opera di sensibilizzazione e di informazione.

Le cose stanno però diversamente se si prendono in esame le aree micro sociali, ovvero

quelle situazioni “private” in cui nulla può essere deciso o imposto d’autorità.

Parliamo, ad esempio, del TEMPO LIBERO, espressione con la quale si intende una gamma di realtà destinate a dare senso e piacere alla vite: questo è un problema di socializza adone che può apparire superfluo e trascurabile mentre è fondamentale per l’equilibrio della persona.

Come usa il disabile il proprio tempo libero, con quali compagni, in quali attività? Chi ha esperienza clinica del disabile adulto sa che questo è un punto molto dolente.

Il giovane disabile, magari inserito bene nel lavoro, spesso letteralmente precipita nella peggiore emarginazione proprio nel tempo libero, quando le sue incapacità si manifestano inevitabilmente.

Se infatti è relativamente facile far funzionare una macchina in officina, coltivare i campi, lavorare al computer, è decisamente più diffìcile essere un interlocutore interessante, un compagno di giochi stimolante, un amico da ammirare, e così via.

Consideriamo poi la dimensione della SESSUALITÀ.

Pressoché tutti vivono pienamente tale dimensione, anche coloro che vi rinunciano liberamente per una qualche ragione, mentre il disabile ne reste spesso escluso a priori.

Infine, esaminiamo la DIMENSIONE CULTURALE

Anche se bene integrato, il disabile resta, il più delle volte, confinato in un mondo di

conoscenze limitato, infantile, spiritualmente povero,e ciò costituisce una terribile forma di

emarginazione.

Le aree micro sodali sono quindi assai meno agibili delle altre, in quanto condizionate

maggiormente dalla personalità, meno penetrabili e più legate all’azione individuale, alla

libera scelte, alla creatività.

Queste, a mio avviso, è la problematica reale quando si parla di inserimento sociale a pieno titolo: queste è anche la frontiera nella quale il nostro impegno deve diventare più ampio e profondo, nella convinzione che molto è stato fatto ma che altrettanto resta ancora da fare.

La mia visione dei problemi non è tuttavia pessimistica: una lente opera di modificazione può aver luogo con effetti positivi, a patto che si tengano ben presenti alcuni punti ineludibili se si vuole essere, al tempo stesso, prepositivi e realistici.

Una variabile importante è rappresentate dal fatto che la condizione di disabilita non è

uniforme: un conto, infatti, sono i disabili unicamente fisici, un altro i ritardati mentali, un

altro ancora i soggetti che accanto ai deficit di prestazione presentano uno stato di

disarmonia relazionale.

In altre parole, non si può parlare di disabilità in modo generico, ma occorre essere

consapevoli che ne esistono diverse forme e che quelle componenti problemi mentali e

relazionali trovano maggiori ostacoli nel processo di integrazione sociale.

Accade invece, purtroppo, che di queste peculiarità non si tenga abbastanza conto e che si

tenda a fare di ogni erba un fascio.

Un altro aspetto può essere sintetizzato in una formula: il processo di integrazione richiede contemporaneamente un cambiamento sia al soggetto disabile che alla società.

Ciò significa che occorre anche uno sforzo di trasformazione sociale qualitativa che forse può prendere le mosse dal settore della disabilità, ma dovrebbe avere un più ampio respiro,ovvero produrre cambiamenti culturali profondi

Infine, è necessario ricordare che lo sviluppo del disabile comporta un notevole sforzo educativo, sforzo che mette alla prova tutte le nostre competenze ad ogni livello, dalla famiglia, alla scuola, all’ambito specialistico.

Non basta quindi limitarsi ai casi singoli, ciascuno con i suoi bisogni e le sue caratteristiche, per i quali talora può essere trovata una soluzione felice, ma che non possono essere generalizzati.

Ai nostri giorni, ed ancor più nel prossimo futuro, i reali problemi non derivano tanto dalla disabilità prestazionale (fisica od anche intellettiva, a meno che non si tratti di casi di elevate gravita) quanto dal deficit complicato da turbe relazionali, dalle implicazioni connesse all’età adulte, dalla qualità esistenziale della vita.

Si potrebbe dire che, superati in una proporzione accettabile i nodi della minorazione strutturale, abbiamo adesso da affrontare quelli funzionali.

Se prima si trattava di questioni che, in gran parte, potevano essere delegate ai tecnici, ora si tratta di questioni di maggiore portate che interessano la società nel suo complesso.

È lecito chiedersi: ce la faremo?

La risposta deve essere ottimistica perché, in un certo senso, coinvolge tutti noi.

Si tratte quindi di cominciare a lavorare per un cambiamento che non riguarda, come in passato, un solo segmento della disabilità:

  • APERTURA,
  • TOLLERANZA,
  • DOVERE DI ASSISTERE IN CONDIZIONI DIGNITOSE,
  • SFORZI TERAPEUTICI ED EDUCATIVI GENERALIZZATI,
  • SENSIBILITÀ,
  • ATTENZIONE AI BISOGNI,
  • GENEROSITÀ UMANA

sono aspetti che hanno a che fare con la qualità di vita di chiunque.

La soluzione di casi singoli è esaltante ma diventa una tappa positiva solo se apre la via ad un processo di consapevolezza.

l’integrazione dei disabili nella società può e deve essere motivo di un impegno ad ampio raggio che mobilizzi speranze, progetti, solidarietà: in una parola, vera civiltà.

 

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